Sarebbe un delitto non scrivere adesso, quando ho un momento che vale la pena di essere scritto.
E' strano ritrovarmi su questo letto, anni dopo, con un monitor acceso dove c'è sempre stato un foglio, e con una tastiera in luogo della stilografica... Così stranamente strano... Tanto che non è nemmeno lo stesso letto; hanno cambiato anche i comodini, guarda un po'. Resta la lampada globulare sopravvissuta alla tremenda notte brava del 1981, e poi c'è uno scaffale pieno di libri... Il lampadario... mah, che importa.
E' come se avessi sempre vissuto qui dentro, ed è come se non ci fossi mai stato prima.
Ma questo luogo è molto più "casa" delle ultime abitazioni in cui sia capitato nell'ultimo quarto di secolo. Adesso che ci penso, l'ultima volta (due o tre o quattro anni fa?) ho scritto che probabilmente "sono stato concepito su questo letto"; probabilmente adesso quel letto è già stato ridotto in truciolo. Probabilmente sono stato concepito in questo luogo, o locale; ma non è la stessa cosa...
Comunque sia, qui è molto più "casa" della solita "casa"; qui ho passato vacanze quando non sapevo ancora parlare, quando pensavo solo a giocare, quando ero un ubriacone solitario, quando ero un ubriacone innamorato...
Qui ho trascorso una vita scrivendo. Qui ho trascorso anche momenti tra i più intensi della mia breve carriera di amante. Addirittura, con due persone diverse!
Questi cambiamenti inattesi, per quanto secondari, mi restituiscono quel senso di estrema mutevolezza che condividono entrambe le nostre illusioni più grandi: il passato e i sogni. Ci sarà mai stata davvero un' altra lampada globulare? Un altro letto su cui concepire dei figli?
Un quaderno e una stilografica? E altre parole da scrivere?
Non lo so, è tutto stranamente strano ma non mi preoccupa e non mi importa; c'è qualcosa di immortale qui, dove il cielo è più vicino e ti può capitare di camminare tra le nuvole; qualcosa di potente, di grandioso. Immane.
E' una nuova esperienza pseudoanacronistica, con questo finto-diario elettronico, con il letto che non cigola più; ma ancora una volta, nessun motivo per farlo cigolare. Tutto è lo stesso, niente è uguale; non lo è mai stato.
A parte, forse, le parole che ho sempre usato per scrivere la mia vita.
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I film in vacanza:
IL MOSTRO di R. Benigni (1994)
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Avrei guardato più volentieri una critica di questo film fatta da Benigni per "L'altra domenica" invece del film stesso. Perché in teoria un film comico dovrebbe farti ridere, invece di farti sorridere -con un sorriso a tratti complice, oppure abituale- con qualche risatina mentale qua e là, per un paio di episodi in quasi due ore.
L'unica risata vera e propria è arrivata qui:
quando il nostro si scaraventa giù dall'impalcatura con un'agilità ultra-scimmiesca. Ma non si può proprio definire cinema d'alta scuola per questo. E' pur vero che se giudicassi i film "comici" dalle risate che hanno provocato in me, sarebbero quasi tutti bocciati; ma qualcuno si salva perché a parte essere poco divertente è un bel film, oppure "dice qualcosa". Il mostro è un film mediocre, con un regista mediocre e un protagonista che non mi sembra essere mai riuscito a esprimere con i suoi lavori la stessa simpatia scalmanata e fiorentina del personaggio-Benigni. Inoltre mi chiedo perché i co-protagonisti (a parte la su' moglie) siano francesi, in uno dei pochi film che grazie alla notorietà dell'autore avrebbe potuto lanciare, o ri-lanciare qualche compatriota; non mi sembra che gli attori italiani siano -o fossero nel '94- sommersi di lavoro, né che i francesi siano migliori. Obblighi contrattuali, amici del co-produttore, non lo so, ma non mi importa, tanto il film non mi è piaciuto.
E' un film apparentemente poco altmaniano, con pochi attori, poco overlapping, e nessuno "show" messo in scena sul set; in realtà è una tappa fondamentale nella sua de-costruzione della storia Americana, che inizia con McCabe e i sogni infranti su cui è sorto il Grande Paese prima del Disastro Industriale e arriva allo show della Estrema Decadenza di Buffalo Bill (V.) capitando qui in piena depressione economica in una infinita, desolante periferia fangosa con un fondale perennemente grigio su cui si muovono individui ignoranti, gretti, pericolosi e affamati, che ascoltano i radiodrammi e si nutrono prevalentemente -in mancanza di meglio- di una una micidiale miscela di zucchero e caffeina chiamata "coca-cola". Un simbolo (degno) degli USA.
Sono personaggi patetici, ma essenzialmente sgradevoli, sempre più sprofondati nella loro povertà spirituale che aumenta in diretta proporzione con la loro (illecita) ricchezza materiale; in questo modo Altman ci racconta gli americani senza ricostruire eventi epocali e vite di grandi personaggi, prima di attaccare direttamente il "mito" del West, con una delle sue opere più intime e disperate. La fragilità del suo anti-eroe smilzo Keith Carradine si sposa perfettamente con quella di Shelley Duvall, che sarà una Olive Oil perfettamente filiforme in Popeye
in un mondo di omaccioni rudi e volgari come John Shuck e Bert Remsen (le solite facce da Altman) e donne -serpente come la Fletcher, che sarà poi odiosamente perfetta in One Flew... Infine anche lo show-nello-show viene allestito velocemente per il finale dagli uomini dello sceriffo che circondano il covo, e in un'epoca in cui i massacri in slo-mo à la Peckinpah (come in Gangster Story) andavano forte Altman ce lo mostra dall'esterno, dopo gli omicidi tutti commessi fuori quadro, una scelta che mantiene fino all'ultimo una costante di freddezza e distacco paradossalmente più efficace dell'esposizione dei fatti, riducendo al minimo il valore di tutte quelle povere vite che da un momento all'altro non sono più. Dunque l'impressione iniziale è del tutto errata; Thieves like us è un film molto altmaniano, molto americano e molto anti-americano, dove è sempre la violenza -del sistema economico come delle armi- a prevalere.
La triste, effimera love story tra i due giovani sparuti protagonisti si conclude ancor più tragicamente del previsto, lasciandoci intendere che il frutto di tanta miseria potrà maturare ingrassando molto più dei genitori, quando la neo-vedova e futura mammina si avvia nella folla verso un radioso futuro... Nella terra dei film.
Straziante, a livello (inter)nazionale; che non è quel genere di strazio amato dal pubblico.
Infine non solo è un film assolutamente altmaniano -anche se si parlano addosso meno del solito- ma anche uno dei migliori. (Nota: qui ho trovato il romanzo intero online)
(e va notato che laddove tutti i distributori del mondo hanno tradotto letteralmente il titolo, i nostri hanno preferito il più"ammericano" Gang)
(e va notato che laddove tutti i distributori del mondo hanno tradotto letteralmente il titolo, i nostri hanno preferito il più"ammericano" Gang)
dove il protagonista è solo accidentalmente il focoso Franz Liszt interpretato da Roger Daltrey degli Who (che fu anche Tommy), pianista-rockstar di grande fama (e doti, com'è ovvio dall' immagine) e prete coatto inviato dal papa ad esorcizzare il suo vecchio amico, l'anticristo-vampiro nazista super-eroico e imbigodinato Richard Wagner
rintanato in un castello à la Bonvi
e lo affronta in un duello all'ultima nota da cui esce vincitore, soltanto per rivedere poi il suo avversario resuscitato da un colpo di fulmine come anticristo-mostro-di-frankenstein con ciuffo e baffetti alla Hitler, armato di mitra-chitarra e pronto a sterminare tutti gli ebrei del ghetto assieme al suo esercito di mini-supermen...
Lisztomania è uno dei film che più apertamente richiamano l'idea della follia; follia creativa, letteraria, visuale e musicale, scatenata e irriverente e ironica, o come dice qualcuno, "artistica", ma pur sempre follia. Non è un caso che questo stravagante affresco pseudo-storico che sembra un fumetto alla mescalina richiami da vicino certi sogni, almeno per gli ex-sognatori professionisti come il Vs. blogger, che almeno in un'occasione ha potuto notare la mise en scene russelliana di una visione onirica... Quindi non posso aver dubbi sul valore estremo di quest'opera particolare, nella particolare filmografia di Russell, per quanto desolante sia ancora una volta l'unico aggettivo adeguato all'esperienza filmica, che è l'unico in grado di definirla in essenza al di là di ogni giudizio personale, estetico o critico in generale, e che è: semplicemente folle.
L'unico istante in cui la satira sembra avere il sopravvento sulla demenzialità dominante non per caso riguarda la chiesa (ricordate The devils?), e se non badiamo al fatto che si tratta di "Ringo" (Richard Starkey) "Starr" -famoso batterista- a fare il papa, la sua battuta è perfettamente sensata, quando risponde alle risibili giustificazioni di Liszt che dice "I know it seems strange but"
In ogni caso, spero di rimediare una copia meno scadente di questa, perché Lisztomania è soprattutto un film da vedere.
Addendum (10.02.10) -- Pubblico la sequenza succitata su Youtube, e la allego a sostegno della credibilità del post: